Poi, un giorno, l’incendio su quel campo si è spento.
La fuliggine e la cenere si sono depositate e hanno nutrito la terra che ha prodotto un vino assai pregiato. E’ un calice sapido, dai riflessi saturnini e odora di pietra mineraria. Un perlage finissimo e complesso lo caratterizza in una miriade di microbollicine in rapida ascesa verso l’iperuranio. Ha il sapore delle rocce fuse perchè la vite ha dovuto affondare le sue radici in profondità per potersi scaldare un pò, durante le gelate notturne.
La terra bruciata ha l’odore del nero.
Ogni colore ha un suo odore e l’odore del nero è l’odore del bruciato.
Quando lo respiri, ti si incatramano le narici e le pupille. Entrandoti dentro, quell’odore di nero, fa il calco della tua anima, ma solo se lo respiri a fondo.
Potessi poi aprirti in due, senza romperti in mille pezzi, tireresti fuori il calco della tua anima e lo ammireresti come pezzo unico di collezione, nella bacheca, non allarmata, del tuo museo.
Su quel terreno bruciato, se non si ha fretta e si ama il verde, si sa che nascerà un prato, un giorno.
Un prato di margherite e di camomilla, con qualche ortica selvatica, papaveri in lingerie di seta e cardi mariani in purpurea veste.
Le api baceranno i capezzoli dei fiori e stillerà un miele dolcissimo che farà fare sogni d’oro a tutti i bimbi nelle pance delle madri. Sogni che si ricorderanno per tutta la vita e non si sapra' mai dire cos’era quella strana nostalgia.
Alcuni la scambieranno con l’insonnia e si alzeranno a conversare con Morfeo, offrendogli il miglior Gin invecchiato; altri la confonderanno con la pazzia e andranno a cercare pillole neutralizzanti. Altri ancora cercheranno ortiche per tutta la vita, le coltiveranno in serra per liofilizzarle in bustina e concederle, su larga scala, ad altri voraci consumatori. Altri ancora staranno con il naso a terra, come i segugi del tartufo, cercando l’odore di catrame e di bruciato sotto ai fiori della camomilla. Infine non mancherà chi sarà attratto dal centro nero ed ipnotico del papaver somniferum.
Io, nelle mie notti, mi ricordo dell’acqua che mi conteneva in un perlage unico e fitto fitto che mi solleticava in continuazione le narici e le pinne. Mi ubriacavo di champagne mentre confondevo l’abbozzo umido della mia lingua, con le ostriche di mare.
Oggi non ho fretta.
Aspetto.
Aspetto che fiorisca il fiore rosso del cactus.
Dovrebbe succedere ed io lo aspetto, anche se lui forse non lo sa.